Tales from the Sea – Stefano Guzzetti (di Mirco Salvadori)
Non ci crederai ma queste interviste mi riempiono di orgoglio. Il mese scorso ho avuto il piacere di incontrare nuovamente i due ex Tempelhof con il loro nuovo nome e progetto per la Strangely Isolated Place americana e questo mese ti ritrovo, dopo un lungo percorso che ti ha portato ben oltre i ristretti confini italiani, scopriremo assieme dove. Ciò che ti accomuna ai due ragazzi di Mantova è il numero di anni che ci conosciamo e l’averti incontrato all’inizio del tuo viaggio. Com’era il Guzzetti del tempo e com’è ora, cosa e come è cambiata la tua vita e il tuo modo di vedere le cose e soprattutto la tua musica.
Il Guzzetti dell’estate del 2010 era un musicista che si poneva per la prima volta un grande punto interrogativo, ovvero la scommessa di fare musica a tempo pieno. Mi ricordo che dopo avere lavorato in vari call center, alla fine fui spinto a prendere questa importante decisione anche grazie a Tania, che poi è diventata mia moglie. A quel tempo, più di dieci anni fa appunto, mi guardai attorno e mi resi subito conto che vivere di musica in Sardegna, dove abito, sarebbe stato molto difficile, un po’ perché le situazioni lavorative erano già monopolizzate da vari nomi ridondanti, un po’ perché sinceramente non sono mai stato interessato a coinvolgere la sardità nel mio output creativo. Nulla contro, sia chiaro, semplicemente non rientra nei miei interessi. Detto questo, decisi quindi di guardare oltre l’isola in cui vivo, e mi affacciai verso un mondo davvero entusiasmante, fatto di tante label indipendenti che sfornavano cd-r in edizioni limitate e il cui operato era davvero curato nei minimi dettagli. Erano gli anni dell’esplosione delle label di ambient music, ma anche della musica neoclassica e dell’elettronica di un certo tipo anche grazie a etichette come la Erased Tapes, la Denovali, la Touch ma anche la Home Normal e la Hibernate. Lo Stefano di allora era quindi un musicista abbagliato da tanto ribollire creativo, che però dovette subito prendere una decisione su quale direzione percorrere, e ovviamente mantenerla. La mia vita poi sì, è cambiata eccome. Di lì a poco ho iniziato a vivere di musica, una posizione davvero privilegiata che non darò mai per scontata, visto che è da quando ero un adolescente che sognavo di arrivare a questo. Una posizione, inoltre, che ho il dovere morale di alimentare ogni santo giorno con il duro lavoro. Il mio modo di vedere la musica, anche quello ovviamente con il tempo è cambiato. Se prima, seppur inconsciamente, tendevo ad approssimarmi il più possibile a uno stato di cose, una possibile aspettativa da un probabile pubblico per esempio, ora non mi pongo assolutamente il problema, e scrivo davvero quello che mi viene in mente. Musica comunque sempre coerente a quanto fatto finora, visto che il protagonista del processo creativo rimango sempre io.
Credo sia importante, per cercare di capire il tuo procedere, andare per etichette discografiche. Sembra una cosa poco importante ma ogni tuo nuovo passo è più o meno coinciso con una nuova avventura discografica e anche di notevole rilevanza. Sono curioso di ascoltare il tuo racconto che senz’altro parlerà di autoproduzioni, piccole label, colossi discografici, distribuzioni importanti e decisioni legate all’indipendenza artistica con l’apertura di proprie record label.
Tanti anni fa, nel 2009 circa, spulciando il sito della Touch, mi imbattei in una release di un certo Enrico Coniglio, un musicista italiano diventato poi uno dei miei più cari amici. Spinto dal mio solito approccio enciclopedista, iniziai a cercare Enrico sulla rete e alla fine divenimmo amici su Facebook e io iniziai a fargli sentire alcuni miei lavori, decisamente più elettronici rispetto a quello che faccio ora. Mi ricordo che fu proprio lui a consigliarti il mio nome per la net label che tutt’ora curi, ovvero Laverna. Da lì in poi presi più coscienza del mio operato e realizzai due mini CD per l’inglese Twisted Tree Line (sub label di Somehow Recordings) del prematuramente scomparso Timo David Brice. A quel punto mi impegnai a realizzare un mio sogno, ovvero quello di creare un disco con le partecipazioni di artisti che incisero per la 4AD (quella degli anni sotto la direzione di Ivo Watts-Russell) e così, sotto lo pseudonimo Waves On Canvas realizzai il disco “Into the Northsea”, con la partecipazione di Louise Rutkowski (This Mortal Coil), Pieter Nooten (Xymox) e Ian Masters (Pale Saints). Quel disco uscì nel 2012, in CD per la Psychonavigation (con la grafica di Marc Atkins) e in doppio vinile per la belga Brooklyn Bridge Records (con la grafica di Vaughan Oliver). A quel punto però mi resi conto che il mio approccio con l’elettronica stava implodendo, sentivo la forte necessità di ritornare a una dimensione totalmente acustica e così scrissi “Leaf”, album il cui ordine delle tracce fu curato da Ivo Watts-Russell. Questo fu anche il disco che mi fruttò un contratto di publishing con la Mute Records (tuttora il mio editore), per me cosa di particolare orgoglio, visto che il primo 7” pollici che acquistai nel 1983 fu “Nobody’s Diary” degli Yazoo. “Leaf” era per me molto importante, sentivo che segnava l’inizio di un nuovo percorso, e così mi impegnai a cercare una label potenzialmente interessata, ma con scarsi risultati. A un certo punto stavo per firmare con la One Little Indian, ma alla fine non se ne fece più niente e fu allora che presi consapevolezza di me stesso come artista indipendente, un po’ anche ispirato da quello che vedevo fare a Teho Teardo con la sua Spècula. Decisi quindi di mettermi in proprio e avviai la mia label personale Stella Recordings, che si sarebbe dovuta anche contraddistinguere per la cura nei materiali e per il fatto che la maggior parte delle release sarebbero state fatte a mano e in edizioni limitate e numerate. Alla fine non ci vidi male, tutte quelle edizioni sono esaurite da tempo e le copie che a volte si trovano su Discogs non sono di certo economiche. L’indipendenza è in fin dei conti una gran cosa, una situaziona privilegiata. Io sono un artista molto prolifico, se avessi un contratto esclusivo con una label, certo non potrei stampare tutto quello che mi passa per la testa, così come mi sono poi abituato a fare negli anni. Io credo profondamente che allo stato attuale un artista possa lavorare in totale autonomia, avvalendosi di strutture come Bandcamp per esempio. Trovo che la distribuzione nei negozi di dischi, che tra l’altro stanno purtroppo praticamente sparendo, sia un costo al giorno d’oggi insostenibile. E non per nulla su Bandcamp ora trovi anche etichette come la Warp, la Erased Tapes e la Ninja Tune, giusto per farti qualche nome. L’indipendenza quindi mi permette poi di realizzare lavori anche con altre etichette e senza grandi vincoli. Motivo per cui con grande onore ho potuto realizzare la mia composizione “1983” per la Deutsche Grammophon all’interno del loro progetto “XII”. Comunque, relativamente al discorso legato alla distribuzione, un’eccezione la faccio, ed è legata al mercato giapponese, dove lavoro con Inpartmaint ma anche con altri distributori e negozi diretti. Il mio legame con il Giappone, terra dove i CD sono ancora venduti in grandi quantità, è particolare. In tempi non pandemici ci ho suonato per tre anni di seguito, lì ho parecchi amici e conoscenze, il Giappone per me è casa. Per concludere il discorso, aggiungo che essere un artista indipendente e al contempo strutturato mi ha consentito di collaborare per esempio con Lisa Gerrard dei Dead Can Dance, senza dovere per forza passare attraverso una serie di cavilli che si sarebbero concretizzati qualora facessi parte di una label importante. Non è roba da poco.
Un paragrafo a parte ma di assoluta importanza riguarda il tuo amore per Ivo Watts Russell e la sua – un tempo – 4AD, in particolar modo per la grafica innovativa del periodo che tu hai contribuito a mantenere viva, grazie anche all’inaugurazione della tua nuova label, la 2020 Editions.
Negli anni ottanta io ero un adolescente sognante, e fu allora che scoprii la 4AD, grazie a una cassetta da 90 minuti che conteneva in un lato “Treasure” dei Cocteau Twins e nell’altro “Spleen and Ideal” dei Dead Can Dance. Se prima di allora mi nutrivo di synth pop e musica classica, da lì in poi si dischiuse alle mie orecchie un mondo che mi rapì per sempre. Ma non furono solo le mie orecchie a essere meravigliate, visto che grazie alle copertine di Vaughan Oliver e Nigel Grierson (allora 23 Envelope) mi resi conto di quanto il connubio tra musica e immagini potesse creare uno stile particolare, in maniera netta e decisa. Allora, in tempi in cui non esisteva internet, quando entravi in un negozio di dischi, una release della 4AD la riconoscevi da lontano. Per le scelte tipografiche, ma anche per un certo tipo di immagini. Questo stile che tanto mi ha rapito, io trovo giusto perpetuarlo. Ma non in maniera derivativa, bensì coinvolgendo i veri protagonisti che lo hanno creato. Come in passato ho avuto l’onore di lavorare con Vaughan Oliver, che purtroppo recentemente ci ha lasciati, di recente ho stretto una vera amicizia e allenza con Chris Bigg, collega di Vaughan nel periodo V23. Anche Chris è stato un pioniere di una certa grafica prevalentemente gestuale e nel contempo costruttivista (suoi i primi lavori degli In The Nursery per la Sweatbox, ma anche le copertine dei Luxuria di Howard Devoto per esempio). Con lui ho deciso di aprire la mia nuova etichetta 2020 Editions. Se prima la mia Stella Recordings era la label quasi esclusivamente per la mia musica, ora ho deciso che voglio produrre anche lavori di altri artisti e non in maniera sporadica. Perché credo fermamente che noi, che abbiamo il privilegio di vivere di arte dalla mattina alla sera, abbiamo l’obbligo morale di creare bellezza, è il nostro compito. E allora perchè non creare, nel tempo, un catalogo musicale che abbia una visione definita? Ne ho parlato con Chris l’anno scorso e lui ha accolto con molto entusiasmo il mio progetto. Ed eccoci qua quindi, fra una settimana esce il nuovo disco di My Home Sinking, il progetto di Enrico Coniglio, dal titolo “Let It Fall”. Farò uscire un disco ogni due mesi. Credo sarà una bella avventura che mi darà anche belle soddisfazioni.
Dedichiamo un altro paragrafo di questo racconto al suono per immagini che riveste un ruolo importante nella tua professione di musicista e compositore.
Scrivere per il cinema, siano essi suoni, rumori o musiche, è una cosa che adoro fare. Da grande appassionato della settima arte, non posso che essere felice quando vengo chiamato a creare per quella magia che si crea tra le immagini in movimento e un dato paesaggio sonoro. Tra le esperienze lavorative che ricordo con grande soddisfazione, il documentario di Domenico Distilo sul viaggio di Igort in Giappone dal titolo “Manga Do”, il lavoro su Piera Degli Esposti “Tutte le Storie di Piera” di Peter Marcias, ma anche i booktrailer per Einaudi Editore sui libri di Haruki Murakami e Francesco Abate. Questa passione mi ha anche portato a un impegno attuale, ovvero insegnare Sound Design per il Cinema all’Università di Cagliari. In questo periodo sono impegnato nella realizzazione della colonna sonora del film “Eddie & Sunny” di Desmond Devenish, una produzione tra Roma e Los Angeles, che ha come protagonisti Gabriel Luna (Terminator: Dark Fate) e Joanna Vanderham (The Runaway). Sarà una bella sfida.
C’è una cosa che sempre volevo chiederti e che da sempre mi incuriosisce, la tua collaborazione con Dolce&Gabbana e che ti ha portato a Palermo ma anche a New York. Com’è quel mondo per noi a volte incomprensibile, visto con gli occhi di un musicista.
Quel mondo, visto con i miei occhi di musicista prestato per l’occasione, è un mondo molto bello, colorato e stravagante. Ma anche un mondo nettamente isolato, che si autoalimenta dei propri valori. Valori che, ovviamente, non sono necessariamente condivisibili da tutti. Avere suonato nella meravigliosa piazza del duomo di Monreale a Palermo, con i modelli che sfilavano attorno a me e al mio ensemble, è stata una soddisfazione unica, poi confermata dai complimenti degli stilisti. Posso quindi dirti che transitare in quel mondo abbagliante è stata una bella esperienza nonché occasione di grande crescita professionale.
USA, Germania, Inghilterra, Giappone, sono i paesi nei quali più è diffuso il tuo suono. Oltre trentadue milioni di ascolti in streaming, come ci si sente e come ci si pone rispetto al paese nel quale vivi e che musicalmente, per colpa di una diffusa mala abitudine che mira alla regressione culturale dei gusti e dei contenuti, non è certo all’altezza di tale sostegno.
Relativamente a quanto ti riferisci possiamo pure confermare, per l’ennesima volta, che il detto “nemo propheta in patria” non è appunto solo un modo di dire. Personalmente te lo confermo sia per quanto riguarda la Sardegna ma anche per il territorio italiano in genere. Quando realizzo un disco, le copie che vendo in Italia sono davvero una piccola parte rispetto all’intera tiratura. Se dobbiamo parlare di cassetti o compartimenti stagni, per pura comodità nel discorrere, allora ti racconto che anche alla Deutsche Grammophon l’estate scorsa mi hanno confermato che l’Italia, per la musica classico moderna, è uno dei mercati più difficili. Eppure siamo il paese di artisti come Ludovico Einaudi. Credo davvero che il percorso che porterà alla legittimazione di questa musica in Italia, se mai dovesse succedere, sarà proprio lungo.
Guzzetti appartiene alla categoria di compositori che conoscono la musica, si sono diplomati, sanno comporre e scrivere sullo spartito. Quanto ti è servito tutto questo, lo consideri basilare per la tua professione?
Sapere scrivere e leggere la musica è un requisito fondamentale se decidi di interfacciarti con strumentisti che fanno altrettanto. Non potrei mai fischiettare una parte di viola alla mia violista, né scrivere o arrangiare ad orecchio una parte di un quartetto d’archi. C’è stato un punto della mia vita in cui ho totalmente abbandonato l’elettronica e ho studiato a dovere ciò che mi interessava dell’armonia e di una certa estetica musicale. Avere una forte, se non addirittura piena, consapevolezza della grammatica del linguaggio che abbiamo scelto per esprimerci credo sia l’unica via per conseguire dei risultati rilevanti. C’è un momento in cui non bastano l’ispirazione e l’intuito, ci vuole altro. Questo ‘altro’ lo si conosce studiando, parlo per me ovviamente. Quando chiesero a Ennio Morricone se lui scrivesse musica solo quando era mosso dall’ispirazione, lui rispose che la musica è un esercizio che va continuamente allenato, motivo per cui lui scriveva tutti i giorni nel suo studio, anche quando l’ispirazione era praticamente inesistente. Io condivido fortemente questo approccio alla materia musicale.
Apriamo una parentesi: il pianoforte.
Questo strumento è per me una fonte continua di sorprese, poiché le sue potenzialità espressive sono davvero infinite. Dal suonarlo in maniera semplice, o con la sordina, o preparandolo, o addirittura percuotendolo fortemente nella struttura esterna, così come ho fatto in un disco collaborativo con il compositore giapponese Hiroaki Matsuoka. Io ho iniziato a suonare da bambino, ma suonavo l’organo, quindi la formazione tastieristica non mi è mancata. Molto più tardi un mio amico mi regalò il suo pianoforte, e da lì in poi si è aperto un mondo emozionante. Perché in questo strumento, anche se suoni la medesima nota, questa non suonerà mai allo stesso modo. Avvicinando l’orecchio alla cordiera, non puoi non notare un microcosmo di risonanze meravigliose.
Altra parentesi: il suono digitale, l’elettronica condivisa con la musica acustica.
Continuando a parlare di risonanze quindi, ad arrivare ad arricchirle con fenomeni acustici non presenti in natura il passo è breve. La mia musica elettronica non si occupa tanto di suoni di sintesi particolari, quanto di trattamento del suono, riverberi, o intrecci di frequenze. Poi sì, certo, i suoni di sintesi ci sono eccome, ma spesso e volentieri sono onde semplici, sinusoidi per esempio, come quelle che usava Stockhausen negli anni ’50. Ma in fondo, se prendi un sub bass avvolgente che fa tremare i muri, questo altro non è che un’onda sinusoidale eseguita a dovere. Creare paesaggi sonori dove elettronica e strumenti acustici interagiscono continuamente è uno dei processi creativi che mi interessano maggiormente.
Ultima parentesi: gli strumenti della tradizione classica come la viola, il violino, il violoncello e il flauto.
Questi strumenti sono stati i protagonisti principali di una certa mia rinascita artistica, quando decisi di mettere temporaneamente da parte l’elettronica per conoscere meglio le potenzialità espressive della musica acustica. Nell’immaginario collettivo gli archi sono spesso accomunati a una musica dolce, forse anche noiosa in quanto classica, un punto di vista che ovviamente non condivido. In realtà, come ci insegna la letteratura contemporanea, questi strumenti possono essere suonati in maniere del tutto impensabili, dando vita a suoni altrettanto non comuni. Io per esempio adoro il suono dei cluster di archi. Nella mia musica, gli archi e i fiati sono ovviamente suonati anche nella maniera più tradizionale, e la bellezza e il calore del loro suono sono per me incomparabili a qualsiasi altro strumento. In fin dei conti, non c’è campionatore o libreria di suoni che tenga, gli archi veri, anche con tutte le loro imperfezioni, sono un bellissimo mondo a sé stante.
Direttamente legata a questi strumenti è il genere di musica nella quale vieni riconosciuto come uno dei migliori esponenti non solo italiani: il neoclassicismo o modern classical, come lo chiamano all’estero. Dal tempo dei primi meraviglosi album di Richter, di musica ne è passato molta sotto i vostri pianoforti, questo genere si è massificato, è divenuto per certi versi mainstream grazie all’uso massicio che se ne fa negli spot pubbicitari o nei film di qualsiasi caratura. Che ne pensa il Guzzetti musicista della situazione odierna, come riuscire a produrre ancora dischi che contengano quel qualcosa in più capace di distinguerli dalla marea di produzioni identiche le une alle altre.
In linea di massima non ascolto i miei contemporanei. Non per supponenza, ma per il semplice fatto che preferisco concentrarmi su quello che sto scrivendo. Non sono inoltre un amante della musica unicamente pianistica, e trovo anche che oramai il panorama musicale attuale sia davvero saturo di “pianisti”. Pare che tutti abbiano scoperto questo strumento e, per quelli che sono i miei gusti, la sensazione è che tutti stiano suonando lo stesso pezzo in una sorta di unisono internazionale. Io penso che sia interessante, col tempo, concentrarsi sul proprio suono, sperimentando, unendo fonti molto diverse tra loro, portando a volte agli eccessi le distanze tra due timbri. In questo era maestro uno dei miei idoli, che purtroppo non è più con noi, Jóhann Jóhannsson. Hildur Guðnadóttir, sua collaboratrice storica, ha ulteriormente approfondito il concetto, per esempio nella colonna sonora di “Joker”, grazie anche alla maestria elettronica di Sam Slater. Rispondendo alla tua domanda quindi: lascerei perdere le solite composizioni stereotipate al piano e creerei arrangiamenti interessanti tra suoni di natura diversificata.
L’elenco degli strumenti prima citati mi serviva per introdurre il tuo nuovo lavoro in uscita proprio questo mese. Si chiama “Lumen”, uscirà a fine Maggio per la tua 2020 Editions e sarà edito dalla Mute. Parlacene.
“Lumen” è per me un lavoro molto importante. Ci sono voluti quattro anni prima che riuscissi a considerarlo concluso. Il titolo si riferisce alla luce di una candela, una piccola fiammella, tanto delicata e debole quanto potente e pregna di significato. È un disco che considero molto spirituale, scritto negli anni successivi alla scomparsa di mio padre, la persona che mi ha insegnato la bellezza della vita. Questo non è un disco facile, nel senso che spesso e volentieri ho anche esasperato alcune tensioni musicali, così come in “Croce”, dove ho voluto parlare del sacrificio, spirituale o fisico, che ognuno di noi deve affrontare e interiorizzare per arrivare a uno status desiderato. Ma è anche un lavoro dove non mancano le dediche personali (la traccia finale “Bubble (for Vaughan)” è appunto per Vaughan Oliver), le sperimentazioni (il brano “Father” è armonizzato sulla registrazione di un condizionatore d’aria in un locale pubblico) o le musiche più semplici (“Tempest” è nata per sestetto d’archi). Anche in questo disco, come successe in “Leaf”, la successione dei brani è stata curata da Ivo Watts-Russell.
Vorrei chiudere con una domanda direttamente legata alle emozioni. Quanto della sua splendida terra, la Sardegna, Stefano Guzzetti si porta appresso nelle sue composizioni.
In tutta onestà non sono un alfiere della sardità, e infatti mi piace pensare alla musica come un luogo geograficamente universale. Poi, certo, i luoghi hanno i propri suoni e musiche caratteristici, ma non sono queste le traiettorie che io vado cercando. Devo però dirti che sono fortemente consapevole di vivere in uno dei pochi luoghi ancora magici, dove ricongiungersi con la natura non è poi così difficile. Non devo certo percorrere tanti chilometri per arrivare in un angolo di mare isolato, o perdermi nella bellezza del verde. Questa è una vera fortuna e non ho alcun dubbio sul fatto che si rifletta, anche inconsapevolmente, nel mio operato.
Esiste sempre un angolo dietro al quale si nasconde il futuro.
In questo periodo sto producendo il disco solista di Igort, artista dalle mille risorse creative. Con Luca Bergia, il batterista dei Marlene Kuntz, stiamo dando gli ultimi ritocchi al nostro primo disco collaborativo, che prevede la partecipazione di vari nomi importanti nel panorama musicale nazionale. Relativamente alla mia progettualità solita, a fine anno uscirà il terzo e ultimo capitolo della trilogia giapponese, con i disegni di Igort. Concludo con una collaborazione alla quale tengo particolarmente, il progetto per pianoforte e viola con Neil Leiter degli Echo Collective. Infine, con gli Antennah (ex C.P.I.), gruppo di cui sono anche fondatore, siamo nuovamente all’opera e al lavoro su nuovi materiali.